“TURANDOT” PER SAN SIRO AL FRASCHINI DI PAVIA

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Si alza il sipario del Teatro Fraschini di Pavia sulla quarta opera in programma, Turandot di Giacomo Puccini, venerdì 9 dicembre alle 20.30 e in replica domenica 11 dicembre alle ore 15.30. Il tradizionale spettacolo che chiude la giornata del Santo Patrono sarà un’occasione speciale per tutti gli spettatori presenti: la Fondazione Fraschini, nell’intervallo dell’opera, ha pensato di proporre un brindisi, con la collaborazione della Cantina Torrevilla (sponsor ufficiale del Teatro), Torregallo in rete e l’Associazione Maresito. Spettacolo in coproduzione coi Teatri di OperaLombardia: Teatro Fraschini di Pavia, Teatro Grande di Brescia, Teatro Ponchielli di Cremona, Teatro Sociale di Como –Teatro Donizetti di Bergamo. Carlo Goldstein che è certamente fra i giovani direttori italiani che più si stanno imponendo, per talento e sensibilità, nel panorama nazionale ed internazionale. Regia e scene portano la firma di Giuseppe Frigeni che infonde al capolavoro pucciniano un taglio formale ed elegante, con una particolare attenzione alle relazioni drammaturgiche. Nel ruolo di Turandot si alterneranno la giovane trentenne Teresa Romano – al suo debutto nel ruolo – e Lilla Lee, che già più volte ha interpretato con successo questo personaggio; il ruolo di Calaf sarà affidato al tenore bresciano Rubens Pelizzari e da Dario Prola, mentre tornano Maria Teresa Leva nel ruolo di Liù e Alessandro Spina nel ruolo di Timur dopo il successo raccolto per la loro interpretazione in La Bohème; le tre maschere Ping Pang e Pong saranno interpretate nell’ordine da Leo An, Saverio Pugliese e Edoardo Milletti. Completano il cast Marco Voleri nel ruolo di Altoum e Omar Kamata nel ruolo di un mandarino. Il coro di OperaLombardia sarà diretto da Diego Maccagnola, mentre il coro di voci bianche Mousiké -Smim Vida di Cremona canterà sotto la guida di Hector Raul Dominguez. La banda di palcoscenico sarà composta da elementi della Banda Isidorio Capitanio di Brescia. / NOTE a cura di Mariateresa Dellaborra: Turandot, ultima opera di Giacomo Puccini (1858-1924), soffrì di una laboriosa e prolungata gestazione che si concretizzò nell’incompiutezza. La storia si interruppe infatti alla morte della protagonista Liù e fu completata, dopo la scomparsa dell’autore, da Franco Alfano sulla base di materiali originali già ideati (otto temi nuovi). La prima fu diretta nel 1926 da Arturo Toscanini al Teatro alla Scala. Se in un primo momento l’idea di affrontare un soggetto fantastico, una delle fiabe sceniche composte da Carlo Gozzi, allettò molto il musicista, ben presto lo scetticismo e i dubbi circa una buona riuscita dell’impresa ebbero il sopravvento. Molti tratti ed elementi della fiaba di Gozzi non furono considerati nel libretto compilato da Giuseppe Adami e Renato Simoni, sotto il diretto controllo di Puccini, e la favola divenne un’opera di «fosca grandezza, crudele e barbarica» (Mosco Carner). Turandot si presenta come tipo inumano, fortemente contrapposto a Liù, caratteristico personaggio femminile, nel quale convivono dilemmi e contraddizioni. Nel contrasto tra i mondi impersonati dalle due donne si inseriscono gli altri ruoli, il più ambiguo dei quali appare Calaf, che si muove dapprima nell’orbita di Liù e poi in quella di Turandot. Al mondo di quest’ultima, inoltre, appartengono anche le maschere Ping Pang Pong. La musica riflette l’ambiguità della drammaturgia e si manifesta attraverso un linguaggio molto avanzato che palesa la profonda conoscenza e lo studio da parte dell’autore delle opere di Debussy, Stravinskij e Schoenberg e la sua padronanza degli autentici temi popolari cinesi. Il primo atto si sviluppa in quattro sezioni ben riconoscibili: l’introduzione, che coincide con la lettura dell’editto; la scena corale, che prende avvio dall’invocazione per giungere sino alla marcia del principe persiano; la scena delle maschere e quella di Liù e Calaf. Il coro connota in modo realistico oppure magico le scene del popolo e evoca i pretendenti morti. In questo primo atto, generalmente considerato il più organico, sono sintetizzati anche gli elementi principali dell’opera: l’esotico, sottolineato dall’uso dei temi cinesi soprattutto per le maschere; il lirico-sentimentale con le arie di Liù («Signore ascolta») e di Calaf («Non piangere Liù»); il grottesco, realizzato ancora attraverso le maschere, e il «grandioso ed eroico» di Turandot, ben evidente nell’incipit dell’opera. Il secondo atto, diviso in due parti, prende avvio con un ampio intermezzo dedicato alle maschere, che creano, attraverso vari procedimenti compositivi, uno spettacolo nello spettacolo. La seconda parte dell’atto è organizzata secondo una efficacissima successione che prevede: l’inno imperiale, l’introduzione di Altoum, la lettura dell’editto, la formulazione per tre volte degli enigmi sul tema di Turandot, l’enigma del nome Calaf proposto sul tema dell’amore. Altrettanto sapientemente collocata al centro del quadro è l’aria di Turandot «In questa reggia», divisa in due parti all’interno delle quali intervengono, senza interromperne la logica, ma anzi accentuandone la concatenazione musicale, il coro prima e Calaf poi. La stessa tecnica è adottata nel terzo atto con l’inserimento delle melodie di Liù nel canto funebre conclusivo. Anche quest’ultimo atto ha struttura chiara e bipartita. Il primo quadro è formato da quattro sezioni musicali: una notturna scena corale con la celebre romanza «Nessun dorma» di Calaf; l’entrata delle maschere con la loro musica esotica; la scena in cui sono riuniti alcuni temi del primo atto (ad esempio la melodia cinese intitolata Moo-Lee-Wha), quelli di Liù e di Timur, due romanze di Liù («Tanto amore segreto» e «Tu che di gel sei cinta») e la quarta parte, che racchiude la trenodia per la giovane. / Note di regia di Giuseppe Frigeni. “Turandot tra tradizione e rivisitazione”: Nelle opere di Puccini, la bellezza accattivante della musica induce troppo spesso a privilegiarne esclusivamente l’aspetto melodico a scapito dell’armonia, così ricca di scale esatonali, modalismi, politonalità, influenze orientali e certamente non ignara delle avventure avanguardiste dell’inizio del secolo (Debussy, Ravel, Stravinskij, Strauss, Prokofiev…). Ne deriva spesso una lettura scenica discorsiva edulcorata e sentimentale, piuttosto che allusiva ed evocativa. Turandot è una delle opere di repertorio pucciniano più famose e come tale iscritta definitivamente nel patrimonio lirico. In quanto opera di tradizione è esposta a diverse proposte registiche e interpretative che non possono comunque esaurirne le potenzialità. Con Turandot il mio intento è stato quello di dar forma a queste allusioni, a queste pieghe del tessuto armonico. In questo allestimento di Turandot, ripreso da quello realizzato nel 2003 al Teatro Comunale di Modena, (mio primo lavoro in Italia), ho lavorato in una prima fase esclusivamente sul materiale musicale, per accoglierne delle impressioni visive, spaziali e dinamiche. Impressioni che ho concretizzato poi in spazi austeri, colori scuri, misteriosi, e in dinamiche coreografiche contrastate. Ho cercato di riunire degli elementi scenici e visivi non invadenti, che potessero far risuonare le evocazioni musicali piuttosto che illustrarle: trasparenze ed effetti di controluce, scorrimenti e slittamenti di piani e dimensioni, contrasti dinamici o ritualistiche, atmosfere sospese. Pur tenendo presente la dimensione orientale del contesto ho privilegiato l’astrazione, evitando la ridondanza “esotica” e le “cineserie salottiere”. Luci, movimenti scenici o coreografici, costumi e posizioni sono elementi essenziali del lavoro scenico che considero interdipendenti delle scelte registiche e drammaturgiche e partecipano in sinergia alla percezione della musica piuttosto che alla sua cosmesi. Sul piano strettamente drammaturgico il personaggio di Turandot si è rivelato come una figura più complessa e fragile che algida e crudele: è una donna che rivela una personalità umiliata e disperata, dalla frigidità psicotica, traversata da un orgoglio ferito e un bisogno di affetto disinteressato e sincero. Non ho voluto rappresentare Turandot come un mostro di freddezza, una macchina di morte: la crudeltà è contestuale al potere ed è instaurata da un sistema profondamente arcaico e maschilista, sostenuto dal compiacimento quasi erotico dalle masse, pronte a amplificare con esiti paradossalmente contradditori le emozioni più istintive e le reazioni più primarie, tra odio e amore, accuse e perdoni. Ho cercato di sottolineare con Timur la figura di una saggezza arcaica, di grande nobiltà umana, testimone impotente dell’evoluzione ambiziosa e cinica del figlio. L’altro padre, Altoum rappresenta invece la saggezza istituzionale, impolverata dal peso di una tradizione maschile millenaria e museale, come lo sono i ministri quasi statuari che lo accompagnano. Liù rappresenta in un certo senso l’alter-ego di Turandot, l’altra possibilità di accedere all’amore, sacrificale e nevrotico. Le due donne sono molto più complementari che nemiche. Entrambe vivono in conflitto con Calaf, con soluzioni diverse e disperate, di estremo sacrificio per Liù o distanza difensiva per Turandot. Calaf è un uomo divorato dall’ambizione e dal potere, fiero di una virilità conquistatrice e competitiva. La dimensione sentimentale è solo a tratti sfiorata, la fascinazione dell’interdizione e la seduzione ne sono piuttosto il motore, non l’amore. Il desiderio profondo è quello di accedere al potere, di riconquistare un’autorità umiliata. Non è l’eroe che sfida per amore. Le sue parole nell’aria Non piangere Liù esprimono in filigrana un paternalismo e un’arroganza che mal si adegua alla dichiarazione sincera e umile di Liù. Il bacio finale (mancato) sarà il segno di un tradimento, che distruggerà con cinico sdegno quel barlume d’illusione risvegliato in Turandot, conducendola ad un altro tipo di morte. Infine le tre maschere sono figure della derisione tragico-comica, gli intrattenitori divertenti del potere, i giullari servili, sensibili ma fondamentalmente impotenti. / Note Musicali di Carlo Goldstein “L’ultimo viaggio di Giacomo Puccini”: Puccini parte per il suo ultimo viaggio verso Bruxelles portando con sé alcuni fogli di appunti su cui spera di riuscire a lavorare. Teme, e forse in parte già sa, che non terminerà quella partitura che nei tre anni precedenti era cresciuta tra le sue mani fino ad assumere proporzioni magniloquenti. Quei pochi fogli, in seguito passati al setaccio da generazioni di studiosi, contengono abbozzi, spunti e soprattutto la speranza che la sua creatura più ambiziosa – Turandot – non debba restare per sempre incompiuta a causa di quelle due orribili parole che i medici hanno tanto esitato a dirgli: carcinoma laringeo. Immagino la paura con cui Puccini intraprese quell’ultimo viaggio della speranza; lo vedo nelle terribili peripezie della malattia che stringe quegli ultimi fogli di carta da musica, ostinatamente attaccato a Turandot come si è attaccati a ciò che si ama nel momento del pericolo estremo. La Principessa è presente fino alla fine nelle sue lettere: “Sono grave! Ti puoi figurare il mio animo. (…) Che Miserie! Turandot? Mah! Non averla finita, quest’opera, mi addolora. Guarirò? Potrò finirla in tempo?”. L’inquietudine che domina quest’opera fin dall’inizio diventa tutt’uno con l’inquietudine del suo autore che affronta il suo ultimo viaggio senza ritorno; la preoccupazione di non riuscire a far diventare la Principessa una donna innamorata coincide alla fine con la paura di non sopravvivere e di non poter tornare a casa. Fino a quel punto del terzo atto Puccini era riuscito a superarsi e ne era consapevole: l’ampliamento dell’organico orchestrale aveva arricchito la sua tavolozza espressiva riuscendo a rendere l’elemento orientale e fiabesco senza cedere al folklore; per il popolo, onnipresente e plurale personaggio che amplifica l’aura dei protagonisti, aveva trovato una scrittura corale di inedita varietà che univa l’apoteosi al sussurro fino al parlato; la commistione tra l’elemento tragico e la commedia delle Maschere era venuta naturale e dettava ritmi teatrali perfetti all’intera vicenda: ogni cosa insomma aveva trovato il proprio posto con la spontaneità che solo il talento concede. Puccini era riuscito nel secondo atto a rendere in modo stupendo la cattiveria della protagonista; con efficace realismo era riuscito a dar voce alla crudeltà senza cadere nel pittoresco. Egli era riuscito laddove molti non lo credevano capace: rappresentare il male! Il poeta del sentimento – e per i suoi detrattori del sentimento facile – aveva creato un sublime mostro in cui la complessità psicologica, il conflitto erotico, l’esasperazione del carattere si mescolavano scolpendo a tutto tondo una figura teatrale autenticamente contemporanea. Era arrivato ora però al punto temuto fin dal principio: la catarsi risolutiva dell’ultimo duetto. Puccini aveva vessato i suoi librettisti facendolo rifare almeno quattro volte: per la decisiva scena del bacio non sappiamo se egli avrebbe alla fine puntato, come poi fece Alfano, sull’orgoglio ferito della Principessa o invece su una trasformazione interiore, come farà Berio sviluppando qui un episodio sinfonico. Sappiamo che egli voleva, secondo un appunto in quei fogli portati con sé nell’ultimo viaggio, “trovare qui melodia tipica, vaga, insolita”. E ancora, scriveva in una lettera ai librettisti: “Urge commuovere alla fine!… Perciò niente retorica! Il travaso d’amore deve giungere come un bolide luminoso in mezzo al clangore del popolo che estatico lo assorbe attraverso i nervi tesi come corde di violoncelli frementi.” Dicendo “travaso d’amore” aveva senz’altro in mente il secondo atto del Tristano di Wagner e nell’affrontare la scena del bacio immaginiamo avrebbe tenuto presente la complessità emotiva – in cui ribrezzo e attrazione erotica si intrecciano – del mostruoso bacio di Salomè alla testa di Jochanaan, del molto ammirato Strauss. Egli si ritrovava adesso al momento finale e doveva sbrogliare la matassa con lo strumento che meno aveva amato in passato: un Duetto. Il teatro di Puccini infatti è un teatro di sentimenti individuali e il suo strumento principe è l’Aria; al contrario di Verdi, che concepisce il teatro in termini sociali e dunque fa crescere i suoi personaggi nel continuo confronto con altri personaggi, il Duetto per Puccini è al massimo un momento distensivo – “Non la sospiri la nostra casetta…” in Tosca – o una sublimazione di Arie precedenti – “O soave fanciulla…” in Bohème. Turandot offriva finalmente a Puccini la sfida di concludere un’opera con un vasto Duetto amoroso – come in Aida – in cui trasfigurazione simbolica e realtà dei sentimenti dovevano tenersi per mano creando un’empatia irresistibile. Una sfida che non sapremo mai come avrebbe vinto. Puccini puntava ad avere un finale emotivamente complesso, antiretorico; un finale che rendesse credibile la metamorfosi della protagonista mostrandone le contraddizioni e le tortuosità. Un finale sì risolutivo ma che non fosse una vittoria. La morte prematura di Puccini ha fatto in modo che il finale di questo capolavoro sia forse per noi oggi ancora più sofferto di quanto il compositore potesse immaginare. Ogni volta che arrivo alle battute finali di Alfano di questa grande partitura – mentre il coro in tripudio parla di “infinita felicità” – sento la somma di sconfitte che si danno appuntamento tra quelle righe che non riescono a essere entusiasmanti come vorrebbero. Penso a Puccini che muore a Bruxelles e che non torna dal suo ultimo viaggio, penso alla frustrazione di Toscanini che non sa cosa fare con questa incompiuta di un amico morto prematuramente, penso ad Alfano che rimane schiacciato in un paragone impossibile e sento un retrogusto tanto amaro a quell’apoteosi conclusiva da esserne sopraffatto. Info www.teatrofraschini.org

Michele Olivieri

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