“IL TURCO IN ITALIA” AL FRASCHINI DI PAVIA

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Si alza il sipario del Teatro Fraschini di Pavia, venerdì 18 novembre alle 20.30 e in replica domenica 20 novembre alle ore 15.30 con “Il turco in Italia”. Quando Rossini scrisse quest’opera per il Teatro alla Scala ebbe poca fortuna, forse perché apparentemente troppo simile a L’Italiana in Algeri. Si scatenò anche la diceria secondo cui l’autore si sarebbe preso gioco del pubblico milanese scrivendo una copia a parti invertite dell’Italiana. In verità le due opere sono ben distinte, “Il Turco” introduce una novità, la figura del poeta Prosdocimo che va in cerca dei personaggi e quella di Don Narciso, il cicisbeo di matrice settecentesca. La storia racconta dello sbarco in Italia del Principe Selim e del suo incontro con la capricciosa donna Fiorilla, sposata a Geronio. Il Principe corteggia, ricambiato, la donna; Geronio, informato, non ha il coraggio di intervenire mentre Selim, ormai invaghito, prima propone a Geronio di vendergli la moglie, poi decide di rapirla durante una festa mascherata. Tutto all’interno di un gioco di lettere, equivoci e travestimenti che condurrà al lieto fine. È la produzione annuale del Teatro Fraschini, opera di primo piano per costruzione drammaturgica e impianto musicale, diretta nella prima rappresentazione da Alessandro Rolla, compositore pavese. Regista Alfonso Antoniozzi, che nasce come baritono (si è esibito nei più prestigiosi teatri, dalla Scala al Metropolitan) con un vasto repertorio in particolare sull’opera buffa rossiniana e donizettiana. Christopher Franklin, americano, si è diplomato in violino, in direzione d’orchestra presso l’Illinois, ha studiato al Conservatorio di Saarbrucken in Germania e a Baltimora. Coproduzione dei Teatri di OperaLombardia: Teatro Fraschini di Pavia, Teatro Grande di Brescia, Teatro Ponchielli di Cremona, Teatro Sociale di Como –Teatro Donizetti di Bergamo. OperaLombardia è un progetto promosso, sostenuto e coordinato da Regione Lombardia, con il quale si è voluta valorizzare la ricca tradizione operistica dei Teatri di Tradizione lombardi. Il circuito regionale ha permesso di realizzare e promuovere programmazioni liriche di grande qualità attraverso la formazione di un sistema strutturato di coproduzione, distribuzione e promozione. Nel cast Fabrizio Beggi (Selim), Paola Leoci (Donna Fiorilla), Marco Bussi (Don Geronio), Ruzil Gatin (Don Narciso), Vittorio Prato (Prosdocimo), Marta Leung (Zaida), Stefano Marra (Albazar). / NOTE a cura di Mariateresa Dellaborra: “Il Turco in Italia”, allestito per la prima volta nel Teatro alla Scala di Milano nel 1814, occupa un posto fondamentale nel percorso creativo rossiniano e rappresenta la «chiave di volta» tra la farsa e la commedia musicale. Nell’intreccio ogni elemento farsesco è infatti abbandonato a favore di una comicità molto raffinata e di un profondo studio psicologico dei personaggi e su tutto domina una scrittura musicale estremamente accurata. Strutture ed elementi della tradizione operistica napoletana sono qui ravvivati da una vigoria ritmica trascinante e da un’attenzione originale nel rendere il rapporto tra parola e musica. In quest’ultimo ambito Rossini, supportato dal librettista Felice Romani, ha saputo dar vita a una buffoneria reale, credibile. All’interno di un mondo borghese si compiono gesti di vita quotidiana e la comicità scaturisce dall’osservazione dei fatti. In scena infatti agisce il poeta Prosdocimo, vero e proprio creatore dell’azione, che realizza una commedia nella commedia. Oltre a questa figura, che elargisce commenti e indicazioni moraleggianti, anche Fiorilla, perfetta ‘versione’ musicale della civetteria femminile, vittoriosa sul sesso forte, è ben delineata. Concludono il gruppo di protagonisti Selim e Geronio che hanno modo di ravvivare la storia soprattutto attraverso i pezzi d’assieme. Divertente è il quartetto nella scena 9 del primo atto che esordisce con «Siete turchi: non vi credo» e che determina una serie di sentimenti e situazioni esilarati che culminano quando Fiorilla pretende che il marito Geronio baci «la vesta del turco». Pure briosi sono i duetti «Per piacere alla signora» (atto I, scena 13), in cui sono dispiegate tutte le arti femminili della seduzione, e «D’un bell’uso di Turchia» (atto II, 2) tra i due bassi Selim e Geronio durante il quale il Turco chiede al vecchio di vendergli la moglie. Secondo Stendhal questo brano «può sfidare arditamente tutte le arie di Cimarosa e di Mozart» al pari del quintetto finale «Oh! guardate che accidente» che è considerato «forse il brano più delizioso mai ascoltato nelle opere buffe di Rossini: la semplicità vi gareggia colla forza d’espressione». Il sestetto che conclude il primo atto «Ah che il cor non m’ingannava» contempera una felice vena melodica con un flusso ritmico frenetico, interrotto solo dalle parole del poeta che, presente anche se estraneo all’azione, incita i protagonisti («Seguitate… via […]; in questo modo, azzuffatevi, stringetevi») ripetendo le parole su una stessa nota, secondo uno stile che è stato definito «recitativo sinfonico», mentre l’orchestra procede con il suo incessante moto. La compagine strumentale svolge un ruolo molto importante non solo sostenendo i cantanti, ma anche intervenendo in momenti autonomi, primo fra tutti quello dell’ouverture particolarmente ricca di sorprese: dall’Adagio dominato da un’ampia invenzione melodica affidata al corno, all’Allegro vivo col suo motivo leggero e danzante. Entrambi ricorreranno nel corso dell’opera determinandone un’efficace coesione. / Note di regia di Alfonso Antoniozzi: A voler ridurre all’osso la trama del Turco in Italia sipotrebbe dire che non è nulla più dell’ennesima rielaborazione di un vecchio tema sviscerato sui palcoscenici dai tempi di Plauto: un vecchio sposato a una giovane di allegri costumi, l’amante fisso di questa, l’arrivo di un secondo amante, una bella agnizione (il secondo amante ritrova un’amante creduta morta), doppio lieto fine col ricongiungimento delle due coppie. Grazie, arrivederci. Ma Felice Romani, che potremmo tranquillamente chiamare “il Mogol dei suoi tempi” visto che scrisse libretti praticamente per ogni compositore della sua epoca, introduce in questo cliché abbastanza trito una variabile modernissima: la figura del “Poeta”. Ai tempi d’oggi leggiamo “poeta” e pensiamo a Ungaretti, Foscolo, Leopardi, Neruda, ma nel gergo teatrale d’allora il poeta altri non era che il librettista: Romani mette dunque in scena se stesso e i travagli di un librettista cui è stata commissionata la scrittura di un dramma, buffo di cui “non trova l’argomento”. A questo punto tutta la struttura drammaturgica prende un guizzo di vitalità a parere mio mai incontrata prima in un libretto d’opera: lo spettatore è invitato ad assistere alla genesi di un libretto. Certo, qualcosa di simile era già successo in componimenti come “Le Convenienze e Inconvenienze Teatrali” di Donizetti o ne “L’Impresario in Angustie” di Cimarosa, ma in queste opere ci si focalizza sulle beghe di primedonne e castrati e sui vari impedimenti di un allestimento, insomma sui pettegolezzi da camerino che tanto intrigano anche i melomani odierni, mai sulle difficoltà della scrittura e dell’immaginazione di un libretto, della costruzione di una trama. Il nostro Poeta (si chiama Prosdocimo, ma non viene mai chiamato per nome) decide quindi di prendere spunto dalla realtà che lo circonda e raccontarla, a volte intervenendo direttamente nelle vicende di cui è testimone e tentando di alterarne teatralmente gli esiti. Chi osserva è dunque invitato ad entrare direttamente “nella testa” del librettista, e viene rimbalzato da Rossini e Romani in un gioco di specchi dove la realtà si mescola alla fantasia, l’invenzione si stempera nel vero, fino a disorientare lo spettatore e trasformarlo in una sorta di Alice nel Paese delle Meraviglie Teatrali. Leggendo il libretto viene in mente a chiunque mastichi di teatro e di letteratura la celebre frase con cui Eduardo descrisse il suo teatro: “ho assorbito avidamente, e con pietà, la vita di tanta gente”, e viene in mente anche quel senso di disorientamento che fu proprio di tutta la produzione teatrale pirandelliana: solo questo basterebbe per fare del Turco in Italia l’opera più “moderna” della produzione rossiniana, e forse a comprendere perché quest’opera non ebbe, all’epoca in cui fu presentata, il medesimo strabiliante successo di Barbiere, Cenerentola o Italiana in Algeri (di cui fu a torto considerata una “brutta copia”). Nello spettacolo che abbiamo inventato per il circuito dei Teatri Lombardi abbiamo tentato di raccontare esattamente questo, e di creare il medesimo disorientamento. Le scenografie di Monica Manganelli sono completamente virtuali, reali e irreali al medesimo tempo: statiche eppure animate, quando credi di averle afferrate sono già scomparse, sono già diventate qualcosa d’altro. Rincorrendo i pensieri, i ripensamenti, le cancellazioni, gli stati d’animo del librettista ci consentono di affrontare serenamente e con coerenza teatrale i repentini cambi di ambientazione voluti dalla trama. I costumi di Mariana Fracasso, in omaggio ad Eduardo e al mondo che seppe portare sulla scena, ci riportano alla Napoli dell’immediato dopoguerra, quella della ricostruzione, della vita che faticosamente ricomincia e che è pronta per essere raccontata e teatralizzata, un periodo in cui l’esotico (l’arrivo del Turco, appunto, e la presenza degli zingari) era ancora percepito come tale perché non ancora filtrato dalla lente distorta del pregiudizio e nemmeno anticipato, come ai giorni nostri, da una visita su Trip Advisor e Google Maps. Per la mia parte, ho cercato di costruire un meccanismo teatrale di scatole cinesi costantemente alternato tra realtà e fantasia, tra opera e prosa, tra avanspettacolo e musical, tra cinema e varietà, un percorso in cui mi auguro lo spettatore sia disposto a perdersi, rinunciando a capire se quello che gli raccontiamo stia succedendo davvero o sia solo l’immaginazione del poeta, se quello che gli appare davanti agli occhi sia la vita di Fiorilla e Geronio o solo una commedia ben congegnata, se stia vedendo la realtà o le prove di uno spettacolo, abbandonandosi a questo caos organizzato e lasciandosi coinvolgere da quell’ottovolante teatrale che è Il Turco In Italia di Felice Romani e Gioachino Rossini. / Note Musicali di Christopher Franklin: Come tanti titoli che fanno parte del repertorio lirico conosciuto oggi, la nascita di IlTurco in Italia nel 1814 non è stato un parto del tutto felice. Seguendo la grande attrazione degli europei nei primi anni dell’800 per le vicende esotiche, Gioacchino Rossini aveva ottenuto un grande successo un anno prima, nel 1813, con la sua opera L’Italiana in Algeri. Purtroppo la prima di questo Turco, proprio alla Scala, fu accolta freddamente soffrendo sicuramente in parte il paragone con l’Italiana in Algeri, l’opera definita da Stendhal come “la perfezione del genere buffo”. Il fatto è che IlTurco in Italia è ricco di melodie freschissime e originalissime, ed infatti il bravo Rossini, avendo capito il valore di questa partitura, ha ripescato parecchio materiale musicale per riutilizzarlo in opere successive, una prassi in ogni caso molto comune in quei anni. Risentiamo la prima parte della Sinfonia di Turco in Otello un paio di anni dopo, nel 1816. Nello stesso anno (1816), una gran parte del secondo atto di Turco lo riscopriamo nella Gazzetta. In ogni caso, la fortuna moderna di IlTurco in Italia nasce sicuramente negli anni ’50 del ‘900, con una nuova produzione diretta da Gianandrea Gavazzeni, interpreti Maria Callas e Sesto Bruscantini; pochi anni dopo, nel 1955 va in scena una “prima” alla Scala per la regia di Franco Zeffirelli, sempre con Callas nel ruolo di Fiorilla. Oggi troviamo spesso questo titolo in cartellone; trattandosi di un’opera quasi del tutto dimenticata è un piacere vederne quest’anno ben tre produzioni solo in Italia. / Tutti le info sul sito www.teatrofraschini.org

Michele Olivieri

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